“Tornare alla mia vita di prima. Una vita banale, forse, ma sicuramente una vita normale”. È questo il sogno di Ramona, una ragazza di Torino di 32 anni che, circa tre anni fa, ha dovuto mettere la sua vita in pausa per affrontare un tumore raro. Per sconfiggerlo, ha dovuto rinunciare alla propria gamba sinistra, ma non alla sua gioia di vivere, alla sua testardaggine, alla sua forza e ai suoi sogni. Che oggi, grazie alla generosità di Chiara Ferragni e Fedez sono sempre più vicini. The Blonde Salad ha incontrato Ramona: ecco la sua storia.
Ciao Ramona, ti va di raccontarci la tua storia?
Sono nata il 18 maggio del 1986 in Svizzera, ma all’età di 6 anni io e la mia famiglia ci siamo trasferiti a Torino. Com’era la mia vita? Serena, tranquilla… esattamente come quella di tante altre ragazze, tra divertimenti, studio e lavoro. Mi sono laureata in marketing e comunicazione d’impresa e, dopo aver collaborato con un’agenzia di eventi, ho iniziato a lavorare in un negozio di oggettistica e articoli da regalo in centro a Torino. Era il 2015, un periodo molto positivo nella mia vita. Avevo appena chiuso una relazione molto importante e avevo davvero voltato pagina. La mia vita si svolgeva praticamente sulla tratta Torino-Milano: ero sempre fuori per lavoro e mi sentivo pronta a fare il salto di qualità. Dedicavo molto tempo anche allo sport, tra le corse nel parco sotto casa e lezioni di gag e idrobike in palestra. Ma nonostante queste giornate così movimentate, trovavo sempre un momento da dedicare a “Il sorriso di Buba”, un’associazione no profit fondata nel 2010 in ricordo di una mia cara amica scomparsa per un tumore a 25 anni. Ogni anno ricordiamo il suo compleanno con una festa a tema e il 19 settembre 2015, una data che non potrò mai dimenticare, festeggiavamo la donazione di una Fiat Panda per le cure domiciliari ai malati oncologici con un party anni Trenta.
Cosa è successo quella sera?
A chi non piace divertirsi a una festa? Effettivamente anche io avevo bevuto qualche bicchiere in più del solito. È per questo che, quando all’improvviso sono caduta mentre mi cambiavo le scarpe, nessuno ha dato peso alla cosa. Io, poi, non sono una persona che piange o urla dal dolore. Ma io avevo capito subito che c’era qualcosa di rotto, soprattutto perché la gamba sinistra mi faceva male da quasi un mese. All’ospedale, infatti, mi hanno detto che avevo una frattura scomposta del femore sinistro. Come potevo essermi procurata un danno del genere, senza che avessi fatto un incidente o una caduta davvero rovinosa?
I medici, inizialmente, pensavano si trattasse di una questione di malnutrizione. Ma nonostante due mesi di cure, la gamba continuava a farmi sempre molto, molto male. Dentro di me, già intuivo quale fosse il vero problema: la mia esperienza nell’associazione aveva alzato la mia soglia di attenzione. Ma nessuno voleva dare peso ai miei dubbi. Finché un giorno, nel culmine di una discussione con i medici, mi sono trovata di fronte ai risultati dell’esame istologico, a cui mi ero sottoposta il giorno in cui sono arrivata in ospedale con il femore rotto e risalente a un mese e mezzo prima. Il referto era chiaro: “cellule nucleari non identificabili”. Ho ritirato la cartella clinica e mi sono rivolta a uno specialista in ortopedia oncologica che alla prima radiografia si è accorto della presenza del tumore. In quel momento, mi sono sentita rassicurata: finalmente avevamo scoperto la causa di quei fortissimi dolori, che non mi permettevano nemmeno di dormire. L’11 novembre 2015, dopo una risonanza magnetica molto difficile per via del chiodo che mi avevano applicato all’inizio per ricomporre la frattura e un nuovo esame istologico, abbiamo avuto la diagnosi: osteosarcoma teleangectasico. Il mio era il 7° caso in Italia.
A quel punto, ha iniziato i cicli di chemioterapia…
Sì. Durante gli accertamenti erano state individuate due metastasi polmonari, che sono scoppiate al primo ciclo di chemioterapia in 46 micro metastasi. Questa particolare forma di tumore mi rendeva anemica, ero continuamente sotto trasfusione. Continuavo a dimagrire, un pessimo segnale quando si fa chemioterapia. Era quasi Natale e ho chiesto ai medici di lasciarmi andare a casa per le feste. Il fatto di sentirmi circondata dai miei cari ha ribaltato la situazione e ho finalmente cominciato a stare meglio. Ma il fatto di essere completamente paralizzata a letto, senza avere la possibilità di muovermi, mi faceva soffrire. Al terzo ciclo di chemioterapia, ho voluto affrontare la situazione con i medici: dopo sette mesi d’immobilità, non ero più disposta a sopportare un giorno di più. A quel punto, non potevano che essere sinceri: l’unica soluzione per salvarmi la vita era quella di amputarmi la gamba sinistra. Io ero talmente sopraffatta dalla situazione che mi sembrava la soluzione meno dolorosa. Mi sono completamente affidata nelle mani del chirurgo e il 22 aprile 2016 sono entrata in sala operatoria.
Come hai affrontato quel momento?
Ero tranquilla, sapevo che sarei riuscita a superare questo momento. Non avevo la certezza di sopravvivere all’intervento, così come non l’avevano i medici, ma ero consapevole che, se avessi riaperto gli occhi, sarei riuscita a riprendermi in mano la mia vita. Non ho mai avuto paura di morire. A spaventarmi davvero era il dolore, così come il fatto di non poter nemmeno più vedere cosa ci fosse fuori dalla finestra della mia camera. Dopo cinque mesi, ho terminato la chemioterapia: in tutto ho fatto sei cicli prima dell’operazione e sei dopo. Una volta guarita, pesavo fosse arrivata la parte più facile. E invece no…
A cosa ti riferisci?
Alle protesi. In Italia c’è il Nomenclatore tariffario, un documento che stabilisce la tipologia e le modalità di fornitura di protesi e ausili a carico del Servizio Sanitario Nazionale. La sua pubblicazione risale al 1999: in questo campo sono stati fatti passi da gigante ed è ovvio che quella che 20 anni fa poteva essere una protesi all’avanguardia non possa esserlo oggi, così come i prezzi di questi strumenti non possano essere gli stessi di allora. È vero che il Nomenclatore nel 2017 è stato aggiornato, ma poiché non sono state ancora stabilite le nuove tariffe, la situazione è ancora ferma al 1999. Le persone disabili si trovano quindi di fronte a due scelte obbligate: convivere con delle protesi poco funzionali, che possono provocare anche dei danni a livello fisico, o farsi carico di spese molto elevate per poter acquistare una protesi moderna. L’esperienza con la mia prima protesi non è stata purtroppo positiva: pesava oltre 8 chili ed era talmente complicata da utilizzare che mi sono incrinata due costole. Dopo pochi mesi, ho preferito metterla da parte e sperare, un giorno, di avere la possibilità di poter acquistare un ginocchio elettronico, una protesi che mi avrebbe dato la possibilità di tornare alla mia vita di prima.
E arriviamo alla scorsa estate, quando Chiara e Fedez hanno pubblicato un video sui propri profili Instagram dove raccontavano il loro desiderio di aprire un fondo per aiutare una causa speciale…
Ricordo tutto di quel giorno. Non appena ho visto il video sul profilo di Chiara, le avevo perfino scritto un direct perché non riuscivo più a trovare la mail del progetto charity! Una mia amica mi ha chiamato subito per dirmi: “Perché non racconti loro la tua storia?”. Io non ne ero del tutto sicura. D’altronde, perché dovevano proprio scegliere la mia tra migliaia di altre cause ugualmente meritevoli? Alla fine, mi sono convinta: un paio di giorni dopo, alle 23.45 ho scritto la mail di getto dal mio cellulare e l’ho inviata. Non mi sono preoccupata della forma o delle parole: l’ho fatto più per me stessa, come valvola di sfogo. Non l’ho detto a nessuno e ho continuato la mia vita come se niente fosse. A settembre mi aspettava una nuova serie di interventi per sistemare il moncone. Sono stati mesi piuttosto duri e intensi, in cui i dolori sono tornati a tenermi compagnia. A volte per i farmaci avevo le allucinazioni. E quando il 7 novembre ho ricevuto una mail che mi confermava che Chiara e Federico avevano scelto proprio la mia causa, ho pensato che non fossero ancora finite! È stato un momento bellissimo, liberatorio. È una nuova data da aggiungere alle tante altre date che hanno scandito il mio percorso.
Com’è stato incontrare Chiara e Fedez?
Hanno aspettato che uscissi dall’ospedale per venire a trovarmi a casa. È stata una bellissima giornata. Ho sempre pensato fossero delle persone speciali. Ammiravo Federico per le sue canzoni, mentre Chiara… beh, è Chiara! Come non amarla? Sono due persone serene e felici, una bellissima coppia.
Ora cosa ti aspetta?
Ho davanti a me ancora qualche mese di riabilitazione. Quando sarò al 100%, potrò finalmente acquistare un ginocchio elettronico. Il Centro Protesi di Budrio, un’eccellenza tutta italiana nella fornitura di protesi, ne realizzerà una su misura apposta per me, grazie alla quale non potrò solamente camminare, ma anche correre e nuotare.
Cosa farai subito dopo?
Non vedo l’ora di tornare a correre al parco sotto casa mia, con la musica nelle orecchie.
Un’esperienza negativa come questa può regalare anche qualcosa di positivo?
Assolutamente sì. Io devo tutto al mio tumore perché mi ha permesso di conoscere la vera me stessa. Sento sempre dire che bisogna combattere il cancro, ma non è questo l’atteggiamento giusto. Il tumore è parte di noi e per questo va accettato, compreso, rispettato. Dico spesso che ho dovuto perdere una gamba per sentirmi finalmente completa. Prima di quest’esperienza ero molto rabbiosa, oggi invece ho paura delle emozioni negative. Sono una persona molto serena, ho fatto pace con me stessa e mi piace trasmettere questa mia positività anche agli altri. In questo la mia famiglia è stata di grande supporto: in casa non abbiamo mai parlato del mio tumore. Oggi non ho problemi a scherzarci su. Se mi chiedono cosa mi è successo, rispondo che è stato uno squalo a mangiarmi la gamba!
In generale, credo che un’esperienza come la mia ti obblighi a fermarti e a riempire le giornate in modo diverso. Ho ricominciato a leggere, una passione che ho sempre avuto e che avevo messo da parte perché mi sembrava di non avere mai tempo. In realtà, ho capito che le mie erano solo scuse. Ho riscoperto il mio lato creativo, tanto che mi sono appassionata anche al disegno e alla scrittura.
Cosa consigli alle tante persone che hanno affrontato o stanno per affrontare un’esperienza come la tua?
Ad accettarsi. È il primo passo per vivere meglio. Non abbiate paura a guardarvi allo specchio. Dopo l’annuncio di Chiara e Federico, mi ha stupito l’affetto di tante persone che stanno affrontando lo stesso mio percorso. Sono felice di poter portare loro un esempio positivo, tanto che con molti di questi ho instaurato un bel dialogo, fatto di consigli e di supporto.
Quali sono oggi i tuoi sogni?
Il volontariato è sempre stato importante nella mia vita e oggi credo lo sia ancora di più, tanto che spero un giorno di poter fare un’esperienza all’estero. Non vedo l’ora di riconquistare la mia indipendenza, magari trovando una casa tutta per me, e riprendendo a lavorare. Tre anni fa ho messo la mia vita in pausa, ora è finalmente arrivato il momento di schiacciare di nuovo il testo play.